La sesta stagione di Homeland si è fatta molto attendere e adesso che la sua première, Fair Game, è stata rilasciata, i miei sentimenti a riguardo sono molto contrastanti.
Sicuramente ci troviamo di fronte ad un episodio perfettamente girato (del resto, i problemi di Homeland non sono mai di carattere tecnico), ma che non funziona perché, diciamocelo, annoia. Homeland, che ci ha abituati a non dare mai nulla per scontato e a non rilassarci mai sulla poltrona mentre vediamo l’episodio, produce una première che è sicuramente sottotono rispetto al solito e, in questa serie tv, un simile fatto pesa molto di più che in qualunque altra serie tv.
La morte di Brody ha segnato l’inizio di un nuovo modo di concepire Homeland e, in parte, si è persa la continuità di storia legata al suo personaggio e al legame che lo unica a Carrie. A partire dalla quarta stagione, con ogni premiere si inizia un nuovo ciclo narrativo che prende in considerazione le cose già avvenute in passato ma non sente in bisogno di agganciarvisi per proseguire. Infatti spesso abbiamo salti temporali lunghi anche degli anni e nessuno ne ha mai risentito (certo, sarei curiosa di sapere quanti anni ha Carrie, ad esempio). Anche con Fair Game abbiamo un salto temporale di qualche mese e abbiamo anche una nuova location, che è la Grande Mela. Homeland non ha mai sentito il bisogno di essere didascalico e spiegare al suo pubblico ogni passaggio che porta al cambiamento che avviene di stagione in stagione ed è proprio questo che permette alla serie tv di reinventarsi. È una buona cosa perché questo significa che, potenzialmente, Homeland potrebbe non finire mai, adeguandosi ai tempi moderni e alle sfide che il mondo affronta di anno in anno (il nuovo Presidente degli Stati Uniti d’America, per giunta donna, ne è una chiara dimostrazione). Però, d’altro canto, significa anche ritrovarsi disorientati e perdere l’impatto e il pathos acquisito nella stagione precedente.
Dunque Fair Game, se dal punto di vista emotivo è un episodio forte e di impatto, dal punto di vista spionistico e politico non solo non colpisce, ma nemmeno intrattiene. Se ci trovassimo davvero di fronte ad un pilot, non sarei nemmeno tentata di proseguire con la visione – ma questa è Homeland ed il passato ci ha insegnato a non fermarci di fronte al primo episodio noioso che incontriamo.
Tra le nuove entrate di questa stagione abbiamo Elizabeth Marvel, nei panni del Presidente eletto Elizabeth Keane, figura estremamente enigmatica che, da come abbiamo intruito, rappresenterà una buona spina nel fianco della CIA in questa stagione. La posizione del nuovo Presidente allarma molto Dar Adal, che anche in questa stagione sembra portare avanti il doppiogiochismo che lo ha sempre caratterizzato, estromettendo Saul quando questo porta avanti idee diverse dalle sue. Saul e Dar nella precedente stagione si sono rivelati un duo molto dinamico e capace di saper gestire la loro chimica ed il loro passato, ma temo che questo rapporto di odio/amore rischi di diventare il salvagente al quale aggrapparsi quando non si sa come inserirli (in particolare Dar Adal) nella storia.
Altro nuovo ingresso di rilievo è J. Mallory McCree nel ruolo di Sekou Bah, ragazzo mussulmano che fa video parlando dei vecchi atti di terrorismo, ricordando che ci sono sempre due versioni di ogni storia. Lui sarà il collante di questa stagione, colui che collegherà Carrie, ormai lontana dalla CIA, alle sue vecchie conoscenze dell’Agency.
Carrie, infatti, ha guadagnato un equilibrio che le è costato enorme fatica ed enormi rinunce, e lo ha fatto lontano dall’Agency che le ha sempre tolto tanto, soprattutto in materia di sanità mentale. A contrapporla questa volta c’è Peter Quinn, costretto ad affrontare le conseguenze del terribile trauma subito nella precedente stagione. È particolarmente interessante vedere queste due figure ritrovarsi con le parti invertite: Peter, che solitamente si prendeva cura di Carrie andando a tamponare là dove la malattia della donna creava problemi, adesso si trova nella situazione opposta. È lui il vero protagonista della puntata. La performance di Rupert è stata magnifica e le sensazioni di smarrimento e rabbia da lui provate sono state un vero e proprio strazio emotivo da sopportare.
Come avevo detto precedentemente, il problema di Fair Game non sta nell’emotività, ma in molti altri tasselli del puzzle. La première, comunque, se non eccelsa lancia qualche buono spunto per portare avanti una stagione al livello delle precedenti. E per tirare le somme di questa stagione, ci rivediamo con la recensione finale al termine della stessa.